“Ma noi siamo spiriti di un’altra specie”:

Francesco Summo porta le fate e gli artigiani del Sogno di Shakespeare

al Teatro Verdi di Castelsangiovanni

“Ma noi siamo spiriti di un’altra specie”, risponde Oberon, il re delle fate, al suo fido Puck, spiritello birbantello, autore di molti degli incantesimi (e di molti degli equivoci) che costituiscono uno dei temi principali di Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare, opera appartenente al cosiddetto periodo giovanile del grande drammaturgo elisabettiano, eppure già dimostrazione (insieme al coevo Romeo e Giulietta) di molte delle caratteristiche presenti nelle sue opere più mature come la straordinaria capacità strutturale e tematica e la raffinatezza di stile espressivo. O dovremmo dire “di stili”: infatti, Shakespeare mostra già in quest’opera la sua capacità di assegnare uno stile diversificato e un metro poetico distinto per ognuno dei gruppi di personaggi (e sono ben tre!) che popolano il palcoscenico del suo Sogno.

E il regista Francesco Summo rispetta questa raffinatezza espressiva nel suo allestimento del testo shakespeariano, andato in scena venerdì 4 maggio 2007, al teatro Verdi di Castelsangiovanni (PC), allestimento curato da Summo stesso e dagli attori e tecnici del suo “Teatro Laboratorio delle 13 file”, associazione attivissima da ben sei anni nel territorio della Val Tidone. Chi scrive è docente di letteratura inglese presso il DAMS di Trieste, e ha avuto l’occasione di assistere alla “prima” dello spettacolo insieme a un gruppo di 24 studenti del proprio corso di laurea, naturale approfondimento “sul campo” di uno studio testuale e drammaturgico dell’opera di Shakespeare, condotto nel corso delle lezioni di quest’anno.

La scelta di Summo è di sottolineare visualmente e verbalmente il confronto-contrasto tra due mondi, del resto presente nel testo: il primo, la corte di Atene dove regna il duca Teseo che sta per sposare Ippolita, regina delle amazzoni, un mondo governato dalla legalità e dall’ordine costituito, talvolta persino spietato come nel caso della legge che permette al padre Egeo di imporre alla figlia Ermia il marito da lui scelto, Demetrio, incurante della volontà del cuore della figlia, che batte per il bel Lisandro; il secondo, il mondo del bosco e della notte, regolato dalle leggi della natura e dalle bizzarrie della magia, dove regnano Oberon e Titania, re e regina delle fate, in palese diverbio per un futile motivo di esercizio di potere: Titania protegge un paggetto indiano che le è caro, paggetto che Oberon vorrebbe prendere con se nel suo seguito.

Tra queste due ambientazioni, esiste un terzo mondo, il mondo reale di tutti i giorni, del lavoro e della fatica, fatto di uomini alla buona, artigiani dediti all’impegno fisico che vorrebbero però, una volta tanto, passare alla storia e conquistare la fama scrivendo una tragedia che alla fine si rivelerà esilarante, piena di sottintesi e di gustosa ironia nei riferimenti metateatrali del “teatro rappresentato nel teatro”, stratagemma drammaturgico che, da Amleto alla Tempesta, è carissimo a Shakespeare.

La compagnia di Summo, complessivamente brillante, è particolarmente efficace nel rendere gradevole e ben strutturato questo insieme di motivi e di temi eterogenei facendo ricorso alla diversificazione linguistica: il mondo della corte e dell’alta borghesia di Atene, rappresentato da Teseo, Ippolita, Egeo, Ermia, Elena, Lisandro e Demetrio, si esprime nell’italiano forbito e raffinato della traduzione di Marcello Pagnini per i tipi di Garzanti, linguaggio che rende in modo esemplare la forte presenza di termini aulici ed eufuistici, raffinati ed eccessivamente ornati insomma, dell’originale shakespeariano; mentre il mondo del popolino, degli artigiani, a cui appartengono i sei aspiranti drammaturghi Pietro Zeppa, Nicolino Tessitore, Cecco Zufolo, Maso Beccuccio, Incastro e Berto Agonia, è un mondo il cui livello culturale è linguisticamente basso e che si esprime con un italiano “massacrato” da inflessioni dialettali, solecismi e sgrammaticature varie.

Ma la trovata più significativa di questa buona trattazione del testo shakespeariano è, a mio avviso, il ricorso che Summo e i suoi attori fanno al vernacolo, al dialetto vero e proprio, per i dialoghi e le battute degli spiriti del bosco, Oberon, Titania e le fate al suo servizio, e Robertino Buonalana, lo spiritello birbantello che è il nome assegnato al Puck originale shakespeariano: un dialetto che assurge dunque a linguaggio poetico e teatrale, effimero e sfuggente come gli spiriti che lo parlano, un impianto semantico delle parlate locali che cambiano nelle varie zone della valle, e che la scelta di Summo permette di salvare e di eternare in questa prova di notevole talento artistico e registico.

L’onomatopea del dialetto, il linguaggio sonoro, ritmico e arcaico ben rappresentano il diverso metro che Shakespeare assegna alle sue creature dei boschi: nell’allestimento di Summo, il codice espressivo verbale si unisce armoniosamente al codice espressivo corporeo, movimenti sinuosi, pennellate impressionistiche che gli attori danno alla tavolozza del palcoscenico, muovendosi quasi in una danza pittorica, una sinergia artistica che diverte e incanta. Il dialetto fa ridere e mette buon umore: il pubblico locale spesso è in visibilio quando sente (e riconosce) termini e giochi di parole abilmente tradotti dagli stessi attori e dal regista nella lingua arcaica della propria tradizione. Noi, che veniamo dall’università di Trieste e che a questa tradizione non apparteniamo, spesso restiamo basiti e incerti di avere davvero bene compreso quello che si cela in questo linguaggio magico, che appunto agli esseri magici del bosco appartiene: ma poi riconosciamo la lingua universale di Shakespeare, la lingua del teatro e della performance artistica di una cultura, quella elisabettiana, che di teatro e di spettacolo viveva. E gradiamo questo modo brioso, buffo ma rigoroso di fare parlare i personaggi di Shakespeare con la lingua delle genti di questa parte d’Italia.

La scenografia dell’opera è scarna ed essenziale, anche in questo in perfetta sintonia con il teatro elisabettiano, un teatro dal palcoscenico spoglio, in cui il ruolo principale era recitato dalla capacità evocativa e visualizzatrice della parola. Torreggia al centro un enorme uovo bianco che pende sulla scena, ispirato forse dall’uovo del celebre quadro di Piero della Francesca “La Vergine col Bambino e Santi” esposto alla pinacoteca di Brera, uovo che rappresenta un po’ quello che i vari personaggi (e il pubblico) vanno cercando durante la notte fatata del sogno nella foresta: lo scontro tra la razionalità e l’irrazionalità, tra l’ordine e il caos, tra il corteggiamento convenzionale e la passione del vero amore. Una sorta di lampadario della coscienza, che all’occorrenza diventa la luna che illumina la notte e, per mezzo di un sapiente gioco di luci e di sagome stilizzate, evoca il fitto degli alberi del bosco di Shakespeare. E anche creare uno “spazio musicale” nell’angolo sinistro del palco, dove Renato Podestà e Paolo Codognola, con vari strumenti, realizzano la colonna sonora dell’intera opera, appare una scelta decisamente felice, e ancora una volta in linea con la tradizione del teatro elisabettiano, il cui gusto per la musica era tale da creare uno spazio deputato, un balcone sul palcoscenico, che ospitava i musicanti, spazio oggi visibile nella ricostruzione che del Globe è stata fatta sia a Londra, lungo il Tamigi, che a Roma a Villa Borghese.

Il gruppo degli attori di Francesco Summo è molto affiatato e funzionale, nelle loro diverse capacità interpretative, per rappresentare gli innumerevoli motivi e temi presenti nell’opera originale. Interpretazioni brillanti, o anche solo garbate e affidabili, producono un ricco panteon simile alla qualità eterogenea dei personaggi dell’opera. Si distaccano per qualità superiore e brio artistico Paola Santini, una Titania elettrica e vivace, da alcuni dei nostri studenti definita una specie di incrocio tra una cantante di cabaret e la disneyana Crudelia Demon; Giuseppe Orsi, un Oberon raffinato, che rinuncia in parte al suo carisma tirannico di regista delle azioni di Puck per acquisire la capacità riflessiva di un sovrano sereno e appassionato al tempo stesso, felice del suo regno e del caos che lo governa; Nando Ramaglia, un buon Lisandro, convincente nell’alternanza dei suoi innamoramenti dovuta soprattutto agli incantesimi di Puck; Bruna Molaschi che interpreta uno dei Rocchetto/Bottom migliori degli ultimi tempi, certamente il più brioso e fantasioso tra quelli visti da chi scrive: molto simile al recente successo del Bottom indiano, interpretato da Joy Fernandes nell’allestimento multietnico e multilingue di Tim Supple rappresentato nel 2006 a Stratford-upon-Avon, Bruna Molaschi è comica ed energica al punto giusto per rendere in modo brillante la doppia componente del personaggio originale di Shakespeare, simpatico pasticcione affetto da mania di protagonismo e vero e proprio artefice della riuscita comica e divertente della “rappresentazione nella rappresentazione”, la “lamentevolissima commedia e la crudelissima morte di Piramo e Tisbe… un ottimo lavoro, e divertente.” Da segnalare anche l’interpretazione moderata, eppure perfettamente nelle righe per timidezza e semplicità, di Chiara Zambarbieri, nel doppio ruolo di Incastro e del leone della recita.

Un po’ in ombra rimangono i quattro amanti ateniesi, interpretati con giudizio da Nando Ramaglia (Lisandro), Cristina Bernini (Ermia), Fabrizio Botti (Demetrio) ed Elena Bertaccini (Elena), sia per l’interpretazione contenuta rispetto agli scoppi comici e umoristici degli artigiani e delle fate, sia per l’intenzionale scelta registica di concludere la trama del loro amore in maniera sostanzialmente nuova e modernista rispetto alla tradizione: il racconto della loro esperienza del bosco, e quindi della soluzione positiva delle loro tribolazioni d’amore, prende vita con tratti espressionisti, una “lettura” delle battute in piedi accanto a un leggio, nel buio, con luci che si alternano mettendo in rilievo i vari oratori via via che parlano, quasi a significare una interpretazione stilizzata e soffusa del tema amoroso che ha occupato gran parte dell’intreccio del Sogno. Una scelta singolare e coraggiosa, che non convince del tutto per come è realizzata, ma che è da apprezzare perché innovativa rispetto alla normalità delle produzioni. Tiziana Mezzadri è un Puck euforico e a tratti malinconico nel suo vernacolo struggente, soprattutto nell’epilogo finale: la scelta di tagliare le battute di Oberon e di Titania, le lascia la responsabilità notevole di prendere congedo dal pubblico a nome dell’intera compagnia, compito a cui adempie con convinzione ma anche con un tono un po’ troppo minimalista, in un bell’epilogo che lei stessa ha tradotto in dialetto locale.

In sostanza, la compagnia è valida e l’allestimento è gradevole, soddisfacente dal punto di vista artistico, e fedele, ma al tempo stesso innovatore, da quello letterario. Gli attori di Summo sono come la sua regia, piacevoli, affiatati, agguerriti in questo testo solo dall’apparenza semplice: appunto, come diceva Oberon, “spiriti di un’altra specie”!

 

Mario Faraone

Trieste, 11 maggio 2007

 

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