La prima sezione
si occupa dell’età vittoriana, uno dei periodi maggiormente fiorenti della
storia e della civiltà britannica; l’epoca in cui la struttura stessa
dell’imperialismo e del colonialismo inglese giungono all’apice della loro
funzionalità e della loro estensione geografica, economica e culturale. In
questo periodo, la civiltà britannica assurge a controllore dei traffici
mercantili e sentinella dell’assetto politico di gran parte del globo. La
Pax Britannica, imposta militarmente ed economicamente, vede però profonde
contraddizioni culturali e sociali, soprattutto al suo interno: le “due
Inghilterre”, per ricorrere alla celebre affermazione di Benjamin Disraeli in Sybil, quella dei ricchi e quella dei
poveri, quella dell’opulenta middle class e quella dei lavoratori e degli
emarginati, sono spesso in conflitto. La popolazione che produce la grande
ricchezza della civiltà vittoriana è in gran misura esclusa dalla fruizione
della stessa; tuttavia la borghesia inzia a riflettere sulla situazione di
queste classi disagiate e sul loro ruolo sociale e culturale nel tessuto
metropolitano e nazionale.
Elisabetta Batic studia con perizia l’opera di tre tra i primi “detective
sociali” del periodo, il giornalista e scrittore Henry Mahyew e i giornalisti e
fotografi John Thomson e Adolphe Smith, attivi tra la popolazione povera dei
bassifondi di Londra. La condizione di vita della working class, degli
emarginati, degli esclusi dal benessere di cui godono invece borghesia e
nobiltà, sono illustrate da questi studiosi, e Batic illustra come nei loro
scritti traspaiano l’imbarazzo di assistere al trattamento riservato alle “mani”
― hands, termine che definiva i lavoratori ― che costruivano la ricchezza
vittoriana, e stereotipi e pregiudizi nei confronti del “diverso” che vive
accanto. Il saggio è corredato da un’appendice sullo sviluppo dell’arte
fotografica nel periodo vittoriano, a cura di Andrea Campailla.
Il fenomeno del cosidetto industrial novel è al centro del saggio di Alessia
Forzin la quale, esaminando in principal modo gli scritti di Benjamin Disraeli,
di Charles Kingsley e di Elisabeth Gaskell, si occupa dei modi che la borghesia
vittoriana escogita per “ammaestrare” nella narrativa il pericolo rappresentato
dalla diversità culturale e sociale della working class. Il borghese, spinto da
una visone molto personale dell’antropologia sociale, è al contempo affascinato
da questo mondo così diverso dal proprio, e disgustato dai suoi usi e costumi:
Forzin, con competenza, illustra molti esempi di lavoratori, sindacalisti e
operai, personaggi creati “a immagine” della borghesia, per non perturbare la
sua sensibilità.
Ad altri tipi di “diversi”, come gli immigrati irlandesi e italiani, gli ebrei e
la comunità rom, è dedicato lo studio molto ben documentato di Giulia Fratta,
che analizza le interrelazioni di queste componenti con la cultura borghese
dominante alla luce delle odierne categorie sociologiche e antropologiche dell’ingroup
e dell’outgroup, mettendo in luce stereotipi e pregiudizi.
La civiltà vittoriana vede assurgere a massima dignità il genere letterario
della letteratura per l’infanzia, grazie anche allo sviluppo dell’industria
editoriale e al boom di scrittori che puntano proprio sulle future generazioni
per veicolare i principi fondamentali della civiltà borghese. Francesca
Bombassei Gonnella concentra il suo pregevole studio su tre di questi scrittori,
tra i maggiori in senso assoluto di questo importantissimo genere letterario:
Lewis Carroll, George MacDonald ed Edward Lear. I loro scritti rimangono tuttora
punte di diamante nella letteratura per l’infanzia, sagaci strutture in eterno
bilico tra irrazionalità e logica, tra apparente conferma dei valori vittoriani
e sottile critica interna alla loro stessa struttura, come il saggio appunto
dimostra.
La cultura vittoriana, che basa sulla struttura coloniale la maggior parte della
ricchezza, del potere e del prestigio di cui gode, si avvale della stessa
letteratura per l’infanzia come strumento per propagandare alle nuove
generazioni i principi etici, culturali ed economici che sono alla base
dell’imperialismo stesso. Stefania De Col analizza acutamente gli scritti di uno
dei maggiori professionisti di questo tipo di pubblicazioni propagandistiche,
William Henry Giles Kingston, il più popolare autore per ragazzi del periodo, e
al contempo studia la popolarità riscossa da periodici e riviste per ragazzi
proprio nell’ottica di costruire il consenso nei confronti dell’avventura
imperiale. La ricca e prestigiosa società borghese vittoriana, nella seconda metà del XIX secolo assiste a una vera e propria escalation di criminalità, in particolar modo nei grandi centri urbani. La letteratura vede il proliferare di figure tranquillizzanti, detective e investigatori che a volte collaborano con le forze istituzionali preposte al mantenimento dell legalità, e altre volte le sostituiscono nell’impresa di ricostruire l’ordine infranto. Il canone degli scritti che Arthur Conan Doyle dedica a Sherlock Holmes va inteso soprattutto in questo senso, e in molti di questi scritti il pericolo della alterità e della difformità nei confronti dell’ordine viene dalle lontane province imperiali, soprattutto dal subcontinente indiano. Mario Faraone analizza The Sign of Four, il secondo dei romanzi che vedono protagonisti Sherlock Holmes e il dottor Watson, mettendo in particolare evidenza il sistema di pregiudizi e stereotipi che contraddistinguono l’antropologia vittoriana, basata su una volutamente deviata interpretazione degli scritti darwiniani.
L’argomento centrale
della seconda sezione è il
viaggio e l’incontro con l’“altro”. Il viaggio è sempre stato un elemento
dominante nella cultura britannica, e la letteratura di lingua inglese ha
prodotto numerose narrative e testimonianze di viaggiatori e viaggiatrici. Sin
dal’importantissimo fenomeno culturale del Grand
Tour settecentesco ― comune certo a gran parte delle nazioni del
centro e del nord Europa, ma particolarmente significativo per l’educazione e
maturazione dei giovani rampolli della nobiltà e borghesia britanniche ―
il viaggio ha rappresentato un momento determinante per la conoscenza delle
realtà “altre” da quella insulare a cui i britannici erano abituati. E lo
sviluppo successivo dei mezzi di trasporto, l’età del treno prima, e dei
piroscafi poi, insieme alla potenza politica ed economica imperiale, hanno ulteriormente
stimolato viaggi e conoscenze. Nel suo saggio,
Giovanna Manzato si occupa di un gruppo eterogeneo di viaggiatori e
viaggiatrici che, per motivi professionali o per diletto, si sono recati in
Italia tra il XVIII e il XIX secolo: Charles Burney, musicologo e storico della
musica; Arthur Young, studioso e scrittore poco noto; Lady Mary Wortley
Montagu, colta nobildonna dell’alta società; Thomas Jones, pittore in erba;
James Boswell, il ben noto accompagnatore e biografo di Samuel Johnson; Hester Thrale
Lynch Piozzi, ricca nobildonna frequentatrice dei migliori salotti londinesi e
in seguito moglie di un artista italiano; Tobias Smollett e William Makepeace
Thackeray, celebri scrittori. Uno studio meticoloso e molto dettagliato dei
temi e degli aspetti che della realtà italiana traspaiono da lettere,
memoriali, diari, e riflessioni, e che mostrano come chi viaggia cerchi
sostanzialmente di ritrovare nella realtà che esamina le paure e le aspettative
createsi nella sua immaginazione in seguito a letture e racconti di viaggiatori
del passato. Sempre in Italia, ma
durante la breve e intensa stagione della seconda generazione romantica, si
muovono i viaggiatori esaminati nel saggio di Giovanna Vincenti, un acuto
studio multidisciplinare che analizza il panorama di lettere e diari dei
giovani poeti romantici, John Keats, Percy Bysshe Shelley, George Gordon Lord
Byron, Leigh Hunt, ma anche le impressioni che dell’Italia traspaiono nei
quadri di celebri pittori-viaggiatori come William Turner, alla ricerca di motivazioni
comuni e di condivise sensibilità, espresse da giovani artisti attratti dalla
passione e dall’amore per la classicità. Ma i viaggiatori
inglesi si sono recati spesso anche nel complesso e inquieto mondo dell’area
mediorientale, talvolta mossi dall’esotismo, spesso dalla volontà di cambiare
la propria esistenza, sempre dalla curiosità verso le culture “altre” dalla
propria. Questo è l’ambito di ricerca di due saggi della nostra raccolta. Nel
primo, Gioia Battista segue con passione gli spostamenti ed esamina gli scritti
di tre viaggiatori che, tra gli ultimi vent’anni del XIX secolo e i primi venti
del XX, si recano in varie aree del vicino oriente proprio attratti dalla
fascinazione per l’altro: Charles Montagu Doughty in Arabia; Freya Stark nello
Yemen e Vita Sackville-West nella favolosa Persia, odierno Iran. Nel secondo, Martina
Bertazzon analizza con grande abilità i motivi più espressivi che traspaiono da
alcuni scritti di Gertrude Bell, viaggiatrice, appassionata di archeologia, di
fotografia, e dotata di una grande capacità di mediazione e di una notevole
caratura politica, uno dei personaggi più significativi e stimolanti del
panorama mediorientale nel primo ventennio del XX secolo. L’analisi puntuale di
Bertazzon, individuando alcuni topoi
che Bell sottolinea frequentemente nei suoi testi di viaggio ― quali
l’immagine dell’Oriente, i bazaar
dove si svolge la vita quotidiana, le donne, il deserto e i giardini ―,
pone l’autrice come contigua alla tradizione orientalista vittoriana e rivela
stereotipi storici e connessioni tipiche sullOriente tuttora presenti. Ci spostiamo
decisamente di area geografica con il saggio di Roberta Tommasi, la quale
esamina con sagacità e perizia il club, uno degli aspetti più rappresentativi
dell’organizzazione coloniale e imperiale britannica nel sub-continente
indiano. Tommasi, concentrandosi soprattutto sulla Birmania ― l’odierno
Myanmar ― e analizzando alcuni scritti di George Orwell ed Edward Morgan
Forster, e del meno noto magistrato imperiale Maurice Collis, coglie in
particolare sia la funzione aggregante che il club riveste per la comunità
degli amministratori e funzionari coloniali, che quella di separazione netta e
distintiva tra colonizzatori e colonizzati, funzioni entrambe importanti per le
interazioni sociali tra i due gruppi ed entrambe rappresentate negli scritti
studiati. Gli spostamenti e i
viaggi in treno sono invece al centro del saggio di Mario Faraone, anche se si
tratta di spostamenti e viaggi “di carta”. L’argomento del saggio, infatti, è
rappresentato dall’analisi di due racconti di Edward Upward, scrittore
pochissimo conosciuto eppure figura carismatica a livello politico e artistico
per l’intera generazione di giovani intellettuali e scrittori militanti attivi
durante gli anni Trenta del Novecento in Inghilterra. I treni di Upward si
muovono tra storia e memoria, in paesaggi di carta e di cartapesta, e viaggiano
per i percorsi più intimi della cultura borghese britannica, per giungere al
cuore dei sentimenti umani. In appendice al saggio, un’intervista inedita
rilasciata dall’autore a Faraone. La terza sezione della raccolta ha per argomento le letterature mediorientali ed africane di lingua inglese. La dismissione delle colonie in Africa è piuttosto recente rispetto a fenomeni simili in altre aree geografiche. Il vuoto lasciato dall’invadente e oppressiva presenza imperialistica si fa sentire nell’esigenza di un nuovo assetto culturale. Gli intellettuali e gli scrittori aprono il dibattito a proposito della perdita dell’identità, e cercano di trovare nuove modalità per spingere i propri popoli a riconquistarla, conseguendo un senso di profonda dignità individuale e collettiva. Anche se l’inglese non è lingua nazionale né in Palestina né in Israele, tuttavia è la lingua in cui scrive e si esprime una cospicua comunità di studiosi e intellettuali, storici e sociologi, molti dei quali di formazione accademica e culturale anglofona, studiosi che nel corso degli anni Novanta del Novecento si propongono di superare l’inconciliabilità delle storiografie nazionali israeliana e palestinese. Il saggio di Livio Collerig si occupa con rigore scientifico proprio di questo dibattito estremamente fertile e stimolante: un tentativo di “decostruzione” dei due “artifici storici” viene affrontato dai nuovi storici israeliani e palestinesi, i quali prendono in considerazione argomenti e metodologie che vanno dallo studio sulla storiografia nazionalista all’analisi del discorso coloniale e dell’orientalismo, analisi che hanno dato corso agli studi postcoloniali ed alla scuola storiografica dei subaltern studies asiatici Il panorama postcoloniale africano mostra moltissimi esempi di riflessioni sul proprio passato, sia esso inteso come cultura preesistente al colonialismo, sia come insieme delle trasformazioni politiche e culturali che dall’esperienza del colonialismo hanno avuto origine. Nel suo saggio di notevole valore comparatistico, Desirée Pasa studia il romanzo Season of Migration to the North, dello scrittore sudanese Tayeb Salih, un’opera che rappresenta un’affascinante e brillante riscrittura postcoloniale dell’Othello di Shakespeare, e che affronta dal punto di vista sudanese il problema della decolonizzazione, esprimendo il difficile rapporto Oriente-Occidente attraverso la figura del protagonista che, così come l’Otello shakespeariano, è un africano. E la Négritude come possibile identità dei popoli africani e delle loro culture è al centro del saggio di Silvia Anna Girardi, la quale con molta abilità analizza gli scritti di Wole Soyinka, scrittore nigeriano di lingua inglese, scritti che aprono un forte e aspro dibattito nei confronti proprio di coloro che in diversa misura sono stati i propositori della teoria della Négritude come identità, ovvero Léopold Sédar Senghor, Aimée Césaire e Frantz Fanon. Gli intellettuali, e la loro continua e instancabile ricerca di un possibile ruolo nella ricostruzione della società dopo l’esperienza coloniale, sono al centro anche del rilevante contributo di Denise Da Rin Vidal. Il nigeriano Chinua Achebe e Ngugi wa Thiong’o, nativo del Kenya, riflettono esattamente su questo ruolo e su quale sia il modo migliore per una corretta funzione politica di guida perché la società del proprio Paese possa superare la passata condizione subalterna e muoversi verso un’indipendenza morale e culturale, oltre che politica. La condizione di transizione, di passaggio dal vecchio al nuovo, dalla sudditanza all’indipendenza, è al centro anche delle acute riflessioni che Paolo Corradini fa su Foe, riscrittura postcoloniale del Robinson Crusoe di Daniel Defoe ad opera dello scrittore afrikaner di lingua inglese J.M. Coetzee. La bella prosa scientifica di Corradini analizza il testo di Coetzee e ne mette in rilievo l’enorme significato politico, la volontà dello scrittore sudafricano di contestare schiavitù e colonialismo proprio rifacendosi a uno dei testi, quello di Defoe, che dell’etica colonialista è stato bandiera sin dall’inizio. La diaspora indiana, proveniente dal sud-est asiatico o dall’area caraibica ― dove la presenza di popolazioni provenienti dall’India è notevole, in seguito al fenomeno economico e culturale dell’indentured labour ― è l’argomento della quarta sezione. Nell’agosto del 1947 l’India ottiene l’indipendenza; quasi contestualmente, la separazione di alcune provincie nord-occidentali e nord-orientali a maggioranza mussulmana, come il Balochistan, l’East Bengal, la North-West Frontier Province, il West Punjab e il Sindh, porta alla nascita del Pakistan; nel 1971, dopo una dura guerra di liberazione, la secessione dei territori orientali di questo stato è all’origine della nascita del Bangladesh. In diversi momenti e in diverse ondate, numeri ingenti di indiani, pachistani e bangladesi lasciano per necessità o per scelta i loro Paesi, alla volta dell’ex centro dell’impero, il Regno Unito, recandosi a Londra in particolare. Dall’area caraibica, ben prima della dismissione delle colonie inglesi, un numero via via crescente di sudditi di sua maestà britannica, dalla Giamaica, da Trinidad, dalle Barbados, dalle Antille in genere, si spostano verso il referente unico della loro lunga esperienza di colonizzati, ovvero lo stesso Regno Unito, e sempre a Londra in particolare, riconosciuto centro culturale e linguistico da cui seguitano a dipendere nella buona o nella cattiva sorte. Queste ondate migratorie comportano una serie di problemi di accettazione, resistenza, rigetto, tolleranza, integrazione, da parte dei britannici autoctoni, problemi ormai tristemente noti e sempre più vissuti in prima persona anche nella situazione italiana odierna. La letteratura progressivamente prende coscienza di questi problemi e di queste situazioni di ibridismo culturale, producendo memorie e diari, romanzi e poesie, lettere e canzoni come un corpus unico, eppure variegato ed eterogeneo, di testimonianze storiche, economiche e culturali. E tracce di questo percorso sono riscontrabili soprattutto nella letteratura di lingua inglese prodotta dalle diverse generazioni di migranti. Giovanna Corbatto, avvalendosi di strumenti multidisciplinari e della propria esperienza conseguita sul campo a Londra con l’incontro di esponenti della comunità bengalese ivi immigrati, analizza proprio alcuni di questi problemi sociologici, economici e culturali vissuti quotidianamente dai migranti, e concentra la sua analisi soprattutto sul romanzo A Wicked Old Woman di Ravinder Randhawa, scrittrice originaria del Punjab e trasferitasi giovanissima a Londra, la quale concede inoltre a Corbatto un’intervista inedita, riportata in appendice al saggio. Il romanzo di Randhawa mostra un gruppo di donne che ruotano intorno alla protagonista e che sono attive in diversi ambiti nella Londra nel periodo a cavallo fra anni Sessanta e Settanta. Corbatto mette in luce come la donna delle comunità asiatiche sia due volte soggetta al fenomeno diasporico e all’emarginazione: una volta come indiana in terra straniera, un’altra come donna, relegata al ruolo subalterno nella propria comunità. La diaspora indiana e pakchistana e il ruolo spesso subalterno della donna sono al centro anche del saggio di Valentina Dall’Olio, che allarga il suo campo d’indagine anche all’immigrazione negli Stati Uniti. Producendo una fine analisi soprattutto riguardo al ruolo della donna nelle comunità diasporiche, ― in eterno bilico tra accettazione delle tradizioni ataviche che impongono un ruolo subalterno e anelito all’indipendenza e all’autodeterminazione ― Dall’Olio studia con perizia romanzi e racconti di alcune delle voci più brillanti della letteratura diasporica, come Chitra Banerjee Divakaruni, scrittrice ed attivista sociale, autrice di Arranged Marriage e di The Mistress of Spices; Kavita Daswani, giornalista di moda, autrice di For Matrimonial Purposes; e Jhumpa Lahiri, premio Pulitzer nel 2000, autrice di Interpreter of Maladies. Privilegiando la comparazione come mezzo conoscitivo, Dall’Olio inoltre si occupa anche della diaspora pakistana in Inghilterra, così come delineata dalla penna del giovane Nadeem Aslam, il cui Maps for Lost Lovers ha di recente avuto uno straordinario successo editoriale anche in Italia. L’impatto interculturale della musica caraibica nella società e nel panorama musicale inglese dagli anni ’50 in poi è l’argomento centrale del saggio di Giorgia Polli, la quale analizza con passione e competenza in particolar modo la produzione poetica e i testi delle canzoni di Linton Kwesi Johnson, raffinato cantore della situazione di disagio e di violenza in cui vivono le comunità caraibiche in Inghilterra, tra una sopravvivenza alle discriminazioni verbali e fisiche a cui sono sottoposte dai britannici autoctoni, e una esistenza che talvolta sconfina nella vera e propria malavita organizzata. Johnson, nato in Giamaica ma trasferitosi molto giovane in Inghilterra nel 1963, riesce persino a riprodurre nei propri versi una lingua dotata di estrema versatilità e musicalità, che si avvale di strutture tipiche del reggae e della musica dub, e che ricorre spesso ad alcune frasi che riassumono il pensiero rastafariano per rivendicare l’identità culturale afroamericana dei caraibici. Il saggio di Paola Nadalin si occupa di un problema di grande rilievo, che negli ultimi anni ha caratterizzato l’impegno pratico dell’intellettuale nella società indiana: il dibattito sulla liceità o meno che il governo federale dell’India persegua una politica di costruzione di grandi dighe lungo il corso di alcuni dei maggiori fiumi del Paese, dighe che causano però la necessità di spostare coattivamente intere popolazioni delle valli, costringendole a recidere le radici ataviche con il proprio territorio. Nadalin esamina in modo decisamente coinvolgente una serie di scritti di Arundhati Roy, scrittrice e saggista caratterizzata da un forte impegno militante al fianco di queste popolazioni, scritti che in modo lucido e oggettivo mettono in risalto le dimensioni del problema. La percezione, l’appropriazione e la ridefinizione della città di Londra in alcuni testi di scrittori della diaspora indiana della prima, seconda e terza generazione, sono alcuni degli aspetti più significativi del saggio di Mario Faraone. Londra vista come centro della struttura imperiale dai popoli subalterni diviene, soprattutto all’alba del laborioso e complesso processo di decolonizzazione, un potente magnete in grado di attirare moltissimi migranti. Dagli scritti di autori provenienti dai Caraibi come V.S. Naipaul, George Lamming e Samuel Selvon, dal subcontinente indiano, come Kamala Markandaya, Ravinder Randhawa e Salman Rushdie, o nati essi stessi in Inghilterra, come Hanif Kureishi, Zadie Smith e Monica Alì, provengono descrizioni fisiche e culturali, impressioni personali e riflessioni sociologiche, che mostrano la capitale dell’ex impero britannico come città dalle mille promesse e dalle mille delusioni, dalle mille possibilità e dalle mille difficoltà.
La
quinta sezione considera eterogenee
evidenze dell’interculturalità nell’ambito di alcuni media di espressione
artistica, vecchi e nuovi. Se l’interculturalità, nelle sue più intrinseche
effimere e policrome sfumature, è di per sé un’espressione del mondo
contemporaneo, la multimedialità può essere considerato sinonimo stesso della
postmodernità, una serie di risposte artistiche ed espressive alle esigenze
culturali delle nuove società, sottoposte a continui cambiamenti e
mescolamenti. In questo senso, è importante studiare l’incontro tra culture e
identità in ambiti performativi spesso distanti tra loro. Sandra Carofiglio si
occupa del romanzo, analizzando con finezza El
hombre sentimental, Corazón tan
blanco e Mañana en la batalla piensa
en mí, tre opere dell’autore spagnolo Javier Marías che costituiscono al
contempo tre riscritture di opere shakespeariane (rispettivamente Othello, Macbeth e Richard III), e
tre modi diversi di analizzare l’intimo umano, il suo pensiero, il suo rapporto
con l’“altro”, avvalendosi di tematiche già presenti negli originali di William
Shakespeare, eppure lette e studiate con la sensibilità dei tempi moderni. L’articolato studio
comparatistico di Massimiliano Galasso esamina sia il romanzo che il racconto
breve come strutture narrative, occupandosi di una serie di autori dell’area
anglofona e di quella ispanofona: gli argentini Horacio Quiroga, Jorge Luis
Borges e Julio Cortazar; l’inglese Robert Louis Stevenson; e gli americani
Edgar Allan Poe e Chuck Palahniuk, autore quest’ultimo del controverso e
stimolante Fight Club da cui è stato
tratto un film di un certo successo. Questi narratori illustrano nei loro
scritti diverse modalità di analisi del classico tema del “doppio” in
letteratura, soprattutto in rapporto con la crisi d’identità esperita
dall’individuo e dalla società della modernità. Lo studio documentato
di Clelia Clini si occupa di uno dei fenomeni mediatici più significativi e
rivoluzionari degli ultimi decenni, ovvero la produzione cinematografica di
Bollywood, il cinema indiano commerciale che muove masse sterminate di
spettatori e che, negli ultimi tempi, ha incuriosito e appassionato anche le
platee occidentali. Clini, con abile dono di sintesi, percorre le tappe
principali di questo fenomeno; analizza le motivazioni sociali e l’importanza
che riveste per il pubblico indiano che letteralmente invade le sale di
proiezione; illustra alcuni dei temi più rappresentativi, quali l’eterna lotta
tra il bene e il male, il ruolo della donna e quello dell’eroe, la struttura
solida tradizionale della famiglia, concentrandosi in particolar modo
sull’importanza rivestita dalla filmi
music per il successo straordinario ottenuto dal fenomeno bollywoodiano. L’incontro tra
sistemi di pensiero all’apparenza molto distanti tra loro come la filosofia
occidentale e il Buddismo zen è al centro del saggio di Mario Faraone,
saggio che analizza la modalità artistica del teatro in uno dei testi più
rappresentativi del panorama drammaturgico del Novecento, Waiting for Godot di Samuel Beckett. Faraone studia i temi della
frammentarietà della comunicazione, del senso di vuoto e di disagio di fronte
ai grandi meccanismi dell’esistenza. L’angoscia che percorre i corridoi
dell’opera beckettiana, presente in diversa misura e con diverse funzionalità
praticamente in tutte le opere, è l’angoscia che emerge dalla perplessità
mentale e spirituale di chi percepisce il dilemma in cui vive e si dibatte
l’essere umano. Analizzando l’opera più celebre di Beckett, Faraone individua
tre stadi successivi di questa percezione, che sono al centro sia della ricerca
del drammaturgo, sia delle riflessioni del Buddismo zen: la consapevolezza
dell’assurdità della vita e in particolar modo dell’esistenza senza un dio a
cui fare riferimento; la situazione d’impotenza nella quale l’essere umano si
trova, rendendosi conto di non riuscire a cambiare lo stato delle cose; il
bisogno, irrazionale eppure profondo, di continuare a vivere, perché c’è il
sospetto che la morte non possa portare sollievo e c’è l’intuizione che, in
determinate condizioni, ci sia una via d’uscita. La televisione è
invece lo strumento mediatico studiato da Nicola Bertocchi, il quale concentra
la propria attenzione su due serial televisivi che in diversa misura e presso
pubblici di epoche diverse, hanno riscosso un certo successo: The Prisoner, ideato da Patrick McGohan
e che affascinò il pubblico inglese della fine degli anni ’60, e Twin Peaks, prodotto negli Stati Uniti
da David Lynch, che agli inizi degli anni ’90 tenne inchiodati moltissimi spettatori,
tormentandoli nel tentativo di scoprire l’identità dell’assassino di Laura
Palmer. Bertocchi, in modo sistematico e puntuale, individua nei due serial
temi e motivi specifici, come spionaggio e allegoria della Guerra Fredda in The Prisoner e misticismo e seduzione
erotica in Twin Peaks; ma anche temi
e motivi comuni, come la lotta per il potere e il controllo di individui e di
gruppi. Il potere dell’eros e l’eros del potere serpeggiano nelle pieghe delle
trame e contraddistinguono molti dei personaggi e delle azioni: elementi della
modernità, e anche della postmodernità, in perfetta sintonia con gusti,
aspettative e paure degli spettatori che hanno decretato il successo degli
spettacoli televisivi. E sempre alla
televisione, in particolar modo però alla pubblicità commerciale, è dedicato
anche l’ultimo saggio della nostra raccolta. Sara Stulle esamina con attenzione
la feconda influenza di personaggi, trame e motivi shakespeariani in annunci
pubblicitari che vanno dallo storico Carosello, agli odierni short costruiti
con la tecnica del videoclip. Le parole e l'immagine dei personaggi
shakespeariani sono stati al centro di numerosi commercials prodotti in o per l'Italia: dall'Otello di Carosello con Renata Mauro e Lelio Luttazzi, a quello
della Novi o a quello di Telit; per proseguire con l’Amleto del Totip o del detersivo Sole; con il Romeo e Giulietta del Fondo per l'Ambiente Italiano, del formaggio
Bustaffa, di Lavazza o di Golia; fino al Sogno
di una notte di mezz'estate di Levi’s. Esaminando in particolare gli esempi
del Romeo e Giulietta del FAI, dell’Otello della Telit e del Sogno di Levi’s, Stulle con competenza
mette in rilievo come il messaggio pubblicitario a volte sia strettamente
basato su trama e personaggi dell’originale shakespeariano, altre volte ricorra
a questi originali solo marginalmente, privilegiando l’immagine e la conoscenza
spesso superficiale, molte volte simbolica, che il grande pubblico ha delle
opere di Shakespeare. |